Come si diventa caregiver?

di Aleksandra Semitaio

È qualcosa che accade nel momento esatto in cui sul piatto della bilancia mettiamo sentimenti e senso del dovere? Forse. Alcuni di noi, semplicemente, ci si trovano: siamo genitori, fratelli, amici, mogli, mariti, fidanzati, figli. Empatia, sofferenza, dolore, gioia nella vicinanza, amore sono la spinta ad aiutare. A volte c’è anche paura e senso di impotenza. E anche un pizzico di senso pratico.

Se arriviamo nel momento in cui tutto inizia, in cui si apprende della malattia, della patologia lo shock può essere talmente forte che dobbiamo assolutamente fare qualcosa. Chi di noi non si è trovato di fronte a tutte queste sensazioni e sentimenti? Come si può mantenere l’equilibrio e assicurare una qualità della vita che sia buona per tutte le persone coinvolte?

Come faccio adesso?
Qual è il confine fra me e te?
Il limite buono fra Io e Tu?

Se essere empatici può aiutarci a comprendere, immedesimarsi senza darsi un confine potrebbe non farci bene e non fare bene neanche alla persona alla quale ci affianchiamo. È sempre una questione di piccoli passi da fare insieme e anche da soli. Sia che sia un abbraccio che un aiuto pratico, è prioritario confrontarsi apertamente su ciò che possiamo fare e ciò di cui ha realmente bisogno la persona che vogliamo aiutare.

Dal film “Amori e altri rimedi” 

Diamoci la possibilità di ricordare sempre che se abbiamo la forza, la volontà e il tempo di prestare aiuto è perché prima di tutto sappiamo occuparci bene di noi stessi e delle nostre esigenze, della nostra vita. Se facciamo fatica a ridefinire i nostri spazi fisici, temporali e mentali, possiamo chiedere aiuto, anche a uno psicologo. Perché tutta una serie di situazioni e momenti quotidiani vanno ricostruiti o creati ex novo.

Occuparci della nostra quotidianità senza stravolgerla ci aiuterà a occuparci anche della vita quotidiana della persona che accudiamo e ci aiuterà ad affrontare anche i momenti più duri, se e quando arriveranno.

Ricordiamoci che altri possono essere un appoggio per noi, che comunicare, parlare e confrontarsi è importante anche per noi, che possiamo chiedere aiuto noi stessi, frammentare i compiti, delegare, ma soprattutto, fare il possibile per rispettare e prenderci cura dell’indipendenza e dell’autonomia della persona che accudiamo.

Chiediamoci cosa ci spinge a essere caregiver.
Cosa c’è alla base di tutto questo se non il desiderio che coloro che stanno male non debbano essere limitati nella loro vita di tutti i giorni?
La perdita di autonomia e indipendenza può essere la perdita della propria individualità, del proprio senso della vita, a tutti i livelli, che la patologia sia gravemente invalidante o meno.

A volte qualcosa ci spinge a sostituirci alla persona che affianchiamo: parliamo al posto suo, agiamo al posto suo. Come se sostituirci in toto possa alleviare sofferenze e ostacoli. Non è la soluzione.

Se non è davvero indispensabile, possiamo evitare di farlo. Non è facile, nessuno può dire che lo sia. Faticheremo a ricordarlo perché potrebbe capitare di provare stanchezza e rancore. Ma possiamo provarci, soprattutto facendo tesoro dei momenti in cui quello che facciamo ha avuto i risultati che desideravamo noi e il nostro congiunto o amico, insieme.

Perché insistere su questo punto? Perché essere lucidi e in forze ci dà la possibilità di imparare molto sulla patologia che stiamo contrastando e di essere attenti osservatori. Nel caso specifico di Mr P spesso ciò che si sente dentro non appare all’esterno e viceversa: ci avete mai fatto caso?

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E cos’altro avete notato? Quante domande vi state ponendo? Vogliamo provare a rispondere insieme? Scrivete il vostro pensiero nei commenti in calce a questa pagina.

 


Articolo pubblicato su weareparky.org  il

 

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