Lo stigma: trasforma il Parkinson ed i parkinsonismi in un inferno

Articolo estratto dalla pubblicazione:
Home Care Design for Parkinson’s Disease
edita da Franco Angeli e pubblicato nella modalità Open Access

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“Il disagio che vivono le persone con Parkinson è multidimensionale. In primo luogo, esso deriva dalla disabilità fisica, dal dolore esperito nel corpo, dalle difficoltà legate all’espletare le azioni della vita quotidiana (sebbene questi problemi siano molto condizionati dallo stadio di malattia). In secondo luogo, la MP ha una dimensione anche psicologica che si traduce in un vissuto esperenziale personale di sofferenza che difficilmente può essere tradotto nel linguaggio della medicina. Infine, abbiamo visto come esista anche una dimensione sociale della malattia che, a causa di rappresentazioni sociali spesso inadeguate e fallaci che alimentano stereotipi, pregiudizi, forme di stigmatizzazione, non di rado sono all’origine di forme di discriminazione ed esclusione sociale.

Come riportato in uno studio condotto da Haahr et al. (2011), le PcP debbono imparare a convivere con l’imprevedibilità degli eventi: reazioni inaspettate del corpo, situazioni inattese che impediscono di essere puntuali agli appuntamenti, la sensazione di essere un peso per i propri cari, la riduzione degli spazi di vita e di socialità sono tutte situazioni impreviste che sfidano il benessere di chi incontra questa malattia nel suo cammino. Come ci ricordano Van Der Bruggen e Widdershoven (2005), la vita di un malato di Parkinson è apparentemente caratterizzata da un paradosso esistenziale: la vita appare allo stesso tempo immobile e imprevedibilmente bizzarra. Secondo l’Autore, questo può manifestarsi nella corporeità della persona, nel suo essere-nel-tempo e nello-spazio, nel suo rapportarsi alle cose e agli eventi, nel suo mondo-vita, e nel suo essere-insieme-con-gli-altri come individuo (Ivi).

Se la ricerca medica è impegnata nell’individuazione di una cura e nel miglioramento dei trattamenti attualmente disponibili per la MP dal punto di vista clinico, è la società intesa come rete di relazioni a carattere cooperativo e collaborativo al fine di migliorare le condizioni di vita, la sopravvivenza e la riproduzione dell’insieme stesso e dei suoi membri – che deve occuparsi degli aspetti sociali della malattia. La cura, da un punto di vista sociale, deve fondarsi in primis sulla conoscenza delle implicazioni sociali della malattia e sulla rimozione delle barriere che impediscono una piena realizzazione delle persone che incontrano la malattia lungo il loro percorso.

Un contributo fondamentale in questa direzione è offerto dal mondo delle associazioni e dagli enti di Terzo settore che promuovono azioni per modificare l’immaginario di sickness (come la lotta allo stigma, di cui abbiamo fatto accenno descrivendo alcune iniziative) o intervenire sulla sickness istituzionale (attraverso azioni di advocacy indirizzate a promuovere il riconoscimento di diritti). Tuttavia, si tratta di azioni che necessitano di alleanze con altri attori sociali – dai ricercatori ai policy maker, fino ai rappresentanti e membri della società civile – chiamati a costruire una rete di relazioni che operino in sinergia nel migliorare le condizioni di vita delle PwP e dei loro familiari.”

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